Ho iniziato a lavorare come insegnante di sostegno diversi anni fa. Ero stata assegnata a una classe in cui era iscritto un bambino affetto da un grave disturbo del comportamento che lo portava ad essere molto aggressivo con compagni e insegnanti. Ricordo che uno degli obiettivi che ci eravamo dati per i primi mesi di scuola era che Luca portasse lo zaino in aula al suo arrivo, perché si rifiutava categoricamente di entrare in classe. Dopo mesi di inutili tentativi e altrettanti insuccessi, un giorno pensai che dovevo operare un vero e proprio ribaltamento di ottica. L’unica possibilità che avevo era quella di spiazzare Luca. Quindi una mattina, visto che lui arrivava sempre un po’ in ritardo, ho detto ai bambini della classe che si sarebbe fatta lezione all’aperto visto che nel cortile della scuola c’era una grande ruspa che attirava l’attenzione di Luca.
Così quella mattina, al suo arrivo, Luca ci ha trovati tutti fuori a disegnare la grande ruspa e ricordo ancora la sorpresa nei suoi occhi. Avevo spezzato un meccanismo che durava da mesi. Avevo accolto, anzi la scuola aveva accolto un bisogno di Luca.
Quante volte ci dimentichiamo dello sforzo di adattamento che chiediamo a tutti i nostri alunni e in particolare a quelli in difficoltà?
Come fare per avere uno sguardo attento e capace di innescare risposte creative?
Una ruspa e la rimozione di ostacoli indicata dalla Costituzione
Ho iniziato con il racconto di questa mia prima esperienza perché mi aiuta a spiegare che gli sforzi tesi a garantire l’inclusione scolastica di tutti devono essere orientati alla rimozione di ostacoli e alla realizzazione di contesti pensati e strutturati.
Quando faccio formazione nei corsi di specializzazione per le attività di sostegno, chiedo sempre a colleghe e colleghi qual è la legge che più deve guidarci quando parliamo di inclusione scolastica.
Alcuni ricordano la 517/77, altri la legge 104/92, i più informati citano il decreto ministeriale 96/19 ex 66/17
Sono tutti passaggi legislativi che hanno fatto la storia dell’integrazione e dell’inclusione, ma per me il diritto di tutti ad essere inclusi nell’ambiente scolastico è sancito dalla Costituzione e forse ogni volta che entriamo in classe dovremmo sentire dentro di noi che siamo donne e uomini che cerchiamo di rendere reali i principi espressi in quella legge fondamentale.
In particolare segnalo due passaggi dell’articolo 3 che recitano: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale” ed “è compito della repubblica rimuovere tutti gli ostacoli”. Le due proposizioni sono strettamente collegate.
Come madre di un figlio con disabilità ho sempre pensato che era fondamentale difendere la sua dignità. Quindi ho cominciato ad operare per fare in modo che Lorenzo riuscisse sempre di più a rendersi autonomo, a fare da solo.
Superato il primo periodo in cui pensavo che tutti i miei sforzi dovessero tendere a farlo avvicinare il più possibile a ipotetici standard di normalità, con il tempo ho capito che quegli standard erano solo nella mia testa e che, se volevo che Lorenzo divenisse autonomo, dovevo lavorare su di lui ma anche e soprattutto sul contesto di vita.
Ma per lavorare su un contesto che sostenesse Lorenzo avevo bisogno di vedere con chiarezza quali fossero gli ostacoli alla sua crescita autonoma.
Ecco che quei due aspetti dell’articolo 3 della Costituzione si intrecciano. E’ dignitoso per un essere umano avere l’opportunità di fare da solo, ma per promuovere tale autonomia noi dobbiamo provare a rimuovere gli ostacoli che la impediscono. La prima operazione da fare e forse la più complessa sta nell’allenare il nostro sguardo a vederli, intercettarli, percepirli.
Allenare lo sguardo a vedere altro per arrivare a una disponibilità di accoglienza incondizionata
Per osservare e guardare realmente gli ostacoli presenti nell’ambiente scolastico dobbiamo attuare un cambio di prospettiva molto ardito ma necessario. Dobbiamo ricordarci che a volte le nostre aspettative possono trasformarsi in pregiudizi, dobbiamo stare attenti a non fermarci a guardare solo ciò che manca.
A volte rimaniamo ingabbiati all’interno delle diagnosi che ci vengono fornite e che spesso hanno la funzione di lenire la nostra frustrazione di fronte ai fallimenti che incontriamo. Diventano così uno strumento che, se non utilizzato in modo appropriato, provoca la deresponsabilizzazione di noi docenti, spinti così a pensare “non dipende da me”. Se non riusciamo a entrare in relazione con il bambino, se con lui non otteniamo i risultati che vorremmo, la diagnosi che certifica il suo problema ci protegge.
Ma forse il problema sta proprio nel nostro sguardo, nel nostro paragonare il bambino che abbiamo davanti con quello che abbiamo nella nostra mente. Questo ci fa dimenticare che porre la normalità come modello di riferimento significa negare le differenze in nome di un inesistente uniformità. La scuola diventa veramente inclusiva quando sa accogliere tutte le diversità e riformulare le proprie scelte organizzative, progettuali metodologiche, didattiche e logistiche.
L’inclusione potrebbe essere definita come una disponibilità di accoglienza incondizionata, non come conseguenza di qualche carenza, come risposta a delle provocazioni problematiche, ma come sfondo valoriale a priori. L’accoglienza non è condizionata dalla disponibilità di una maggioranza a integrare una minoranza, ma scaturisce dal riconoscimento al comune diritto alla diversità.
L’ organizzazione mondiale della sanità ha approvato nel 2001 l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) che è la prima classificazione del funzionamento e della salute applicabile ai bambini e agli adolescenti di tutto il mondo per garantire il loro diritto a vivere in contesti in cui vengano rimosse tutte le barriere che ostacolano la loro partecipazione attiva.
Dalla classificazione ICF emerge la definizione di disabilità come una situazione di salute in un ambiente sfavorevole.
Viene ribadito con forza che la disabilità e il funzionamento di un individuo sono strettamente collegati all’ambiente di vita. Ognuno di noi, in particolare momenti, può avere una condizione di salute che, in un ambiente sfavorevole, diventa disabilità.
Come cambia quindi il nostro ruolo di educatori all’interno dell’istituzione scolastica? Quale posizione dobbiamo assumere durante l’osservazione?
Cosa c’è dentro la parola contesto?
La prima cosa che ci suggerisce la classificazione ICF è che la nostra osservazione non deve essere incentrata esclusivamente sull’alunno, ma sulla sua interazione con il contesto di riferimento. Solo così la scuola potrà progettare interventi operativi sul contesto per rimuovere ostacoli e barriere.
Cosa devo osservare per comprendere appieno l’interazione tra alunno e contesto? Cosa c’è dentro la parola contesto?
Quando parlo di contesto intendo tutto ciò che entra in relazione con il bambino: lo spazio, gli oggetti, i tempi, le modalità di lavoro, i compagni e noi come persone e come docenti. Mettere le nostre modalità di interazione con gli alunni, le nostre strategie, il nostro modo di parlare e anche il tono della voce usato all’interno dell’osservazione genera un cambio di prospettiva radicale.
Alla luce di tutto ciò mi viene da dire che il docente curricolare e di sostegno che agiscono per garantire l’inclusione scolastica devono necessariamente essere esperti nell’organizzazione di contesti che favoriscano il funzionamento degli alunni e la loro autonomia. Non dimenticandoci mai che un intervento educativo è veramente efficace se con il tempo va riducendosi e non genera dipendenza.
Ma una scuola attenta al contesto lo è in ogni momento e in ogni ambito. Lo è perché a livello dirigenziale si dà una certa impostazione educativa attraverso scelte organizzative che riguardano tutti coloro che lavorano nella scuola. Lo è perché si costruisce una modalità di accoglienza capace di coinvolgere tutti. Lo è per come vengono gestiti i rapporti con le famiglie. Lo è se la scuola si apre al territorio e alle altre agenzie educative. Lo è quando riusciamo ad adattare quotidianamente il progetto educativo al procedere e quindi ai cambiamenti e alle sorprese che incontreremo durante il cammino.
Il ruolo dei referenti dell’inclusione scolastica
E’ chiaro quindi che l’inclusione non può riguardare solo una categoria di alunni e solo alcuni insegnanti, ma deve assolutamente essere considerata una impresa collettiva. Non a caso Alain Goussot in molti suoi scritti ha affermato che l’educazione è di per sé inclusione. Rendere vera e fattiva tale affermazione è certamente molto difficile ma sono convinta che sia l’unica strada possibile.
E’ importante rimuovere il carattere emergenziale che a volte nelle scuole assume l’inclusione scolastica. Per diventare inclusiva ogni istituzione scolastica deve poggiare i suoi interventi su una solida organizzazione.
Il MIUR con la nota 37900 del 15 novembre 2015 istituiva percorsi di formazione in servizio dei docenti specializzati nel sostegno sui temi della disabilità, per la promozione di “una figura che, collaborando con il dirigente scolastico (ai sensi della legge 107, art. 1, comma 83) assicuri un efficace coordinamento di tutte le attività progettuali di istituto, finalizzate a promuovere la piena integrazione di ogni alunno nel contesto della classe e della scuola». E’ il Referente per l’inclusione scolastica che viene chiamato a svolgere un compito importante di presidio culturale, organizzativo, formativo nel campo dei processi di inclusione.
Da molti anni sono referente per l’inclusione scolastica nel mio istituto e sono formatrice dei referenti in Umbria. Sempre più mi convinco di quanto la scuola abbia bisogno di figure di sistema capaci di promuovere e accompagnare il cambiamento. La referente per l’inclusione è fondamentale nell’affiancamento dei nuovi docenti, nel tutoring, nei processi di formazione interna. E’ una figura da riconoscere e valorizzare perché può agire sui sistemi organizzativi e renderli efficaci a tutti i livelli.
In questo momento siamo impegnate e impegnati nella lettura delle novità dell’ordinanza ministeriale 182 che introduce il modello di Piano Educativo Individualizzato (PEI) e le relative Linee guida, che vanno a completare le disposizioni di legge introdotte dal D. L. 66/17 modificato dal D.L. 96/19. E’ bene ricordare che nonostante alcuni limiti è veramente rivoluzionario il riconoscimento in un documento ministeriale della prospettiva bio-psico-sociale che mette al centro l’osservazione dell’alunno nel contesto. I passaggi da fare sono ancora molti perché nel documento si parla di Profilo di funzionamento quando in alcune situazioni non si riescono ancora ad avere le diagnosi funzionali.
In molti territori, grazie a reti di scuole, da anni si sperimenta l’osservazione del funzionamento in ottica ICF e sarà importante capire come queste preziose sperimentazioni potranno confluire nel nuovo documento e aiutino a migliorare la qualità dell’inclusione scolastica.
Naturalmente questo delicato passaggio va accompagnato dall’attivazione di percorsi formativi tesi a far cogliere il senso dell’impianto perché tutte le norme, anche quando sono ottime, se non vengono accompagnate, se non c’è un passaggio per favorirne l’interpretazione e aiutare a comprenderne la cornice culturale, rischiano di diventare poco efficaci se non produrre effetti indesiderati.
Nelle linee guida dell’O.M. 182 viene ribadita la possibilità di esonerare gli studenti della scuola secondaria di 2° grado da una o più discipline in casi di eccezionalità. Questo aspetto va affrontato con cura e attenzione perché nella formazione non abbiamo bisogno di qualcuno che ci autorizzi a semplificare, a dire “lo si può non fare”. Dobbiamo piuttosto essere aiutati e accompagnati a fare nostra l’idea che quando rispetto a un alunno pensiamo “non lo posso valutare” perché questa cosa “non la può fare”, teniamo presente che in quella presunta impossibilità ci siamo dentro noi. Ci sono le nostre difficoltà a organizzare e strutturare contesti, a capire che se un alunno non raggiunge un obiettivo, è l’obiettivo e la nostra progettazione che forse sono da rivedere.
Ogni volta che si decide che un alunno può essere esonerato da una disciplina va indicato sempre cosa farà in luogo di quella attività e come tutto ciò si intreccerà al lavoro della classe. Non dobbiamo mai dimenticare che la differenziazione ha senso e può essere veramente inclusiva solo se avviene all’interno di una cornice comune.
Il PEI e il progetto di vita
Il PEI è e deve essere lo strumento di progettazione che consente di tenere fermo, stabile e forte il legame tra progettazione della classe e alunni con disabilità.
Possiamo parlare con dignità e giustizia di personalizzazione degli obiettivi se tra la progettazione della classe e i PEI c’è una vera e reale contaminazione, altrimenti il nobile intento della personalizzazione può aprire la strada a forme di delega che non favoriscono l’inclusione.
Ricordo con soddisfazione gli anni del liceo di mio figlio Lorenzo e i miei primi colloqui con tutte e tutti gli insegnati della classe. Seppure in modo aperto e conciliante volevo rivendicare il diritto di Lorenzo a essere visto da tutti i suoi docenti.
Ricordo quando abbiamo cominciato a collegare il PEI al progetto di vita di Lorenzo e abbiamo introdotto nel suo percorso scolastico il lavoro all’asineria. Ricordo le mie battaglie per far sì che questa attività trovasse agganci e collegamenti con la progettazione della classe. Lorenzo frequentava un liceo psicopedagogico e a maggio tutta la classe ha trascorso una giornata all’asineria per capire come la relazione e la cura di un animale potesse essere una pratica educativa importante.
Ricordo il giorno dell’esame di maturità, quando Lorenzo ha presentato quanto aveva imparato all’asineria e come oramai era diventato veramente competente nel fare quel lavoro.
Tutti sono rimasti stupiti dalla quantità di cose che Lorenzo sapeva fare e sapeva raccontare. Oggi Lorenzo lavora in un maneggio convinto che la scuola gli abbia insegnato come fare il suo lavoro e abbia contribuito al suo percorso di crescita.
Il professore Giulio Beretta, uno stimato collega ipovedente che spesso ci racconta il suo percorso scolastico, ci ricorda quanto è importante il collegamento tra il PEI e il progetto di vita degli alunni con disabilità. Nei suoi interventi afferma con forza il ruolo della scuola per l’orientamento e l’inserimento nel mondo del lavoro, ricordandoci che “se osservi una persona che fa bene una cosa tu guardi ciò che sa fare e ti dimentichi della sua disabilità”.
Luca conosceva il funzionamento della ruspa assai meglio dei suoi compagni e quel mattino, fuori dalla scuola, ebbe l’occasione di mostrare loro quello che sapeva. Lorenzo, quando portò le sue compagne e compagni all’asineria dove andava ogni settimana, mostrò quanta attenzione ci vuole per prendersi cura degli asini nel luogo in cui stava cominciando a costruire il suo progetto di vita, che ora lo porta a curare i cavalli e a coltivare un orto dedicato alla luna. La scuola dell’inclusione deve guardare lontano e aprire porte e questo fa bene a tutte e tutti.
Questo articolo è uscito sul numero speciale di Cooperazione Educativa dedicato ai 70 anni del Movimento di Cooperazione Educativa