Ascolto una lezione sull’improvvisazione di Paolo Fresu e appunto queste parole: sentire quello che accade, relazionarci con gli altri, saper attendere, ascoltare, rispettare il pensiero altrui, cercare un silenzio, un ritmo in cui si può dialogare, lavorare in squadra, condividere, cogliere la musica nell’aria.
Fresu aggiunge che a improvvisare non si improvvisa e che l’improvvisazione è una creazione continua. Che improvvisare è cercare le ali giuste per trasformare l’inciampo in un volo.
Sta parlando del Jazz, ma io che non suono e so poco di musica mi sento a casa, perché avverto una consonanza di intenti tra ciò che lui cerca nel Jazz e ciò che come maestre e maestri di scuola consideriamo come elementi essenziali di una pedagogia che voglia liberare l’energia, l’intelligenza e il desiderio di esplorare di tutte le bambine e bambini.
Sono convinto infatti che il dialogo costituisca l’architrave di ogni relazione educativa e che la musica, l’improvvisazione – e in Jazz in particolare – siano un prezioso terreno da frequentare per sviluppare qualità e sensibilità necessarie a una convivenza capace di generare quello stupore reciproco, che è alla base di ogni costruzione di una comunità.
Continuo ad ascoltare Paolo Fresu e ora il grande trombettista sardo parla della “capacità di ascoltare gli altri mentre si parla”.
Qui mi fermo, mi blocco, perché avverto una differenza profonda tra linguaggi distinti.
Nell’educarci all’ascolto e al dialogo in prosa ho sempre pensato che per avvicinarci al pensiero di un’altra o di un altro ci sia bisogno di silenzio, concentrazione e attesa, di attenuare il pregiudizio e predisporci alla sorpresa.
Ma Paolo sostiene si possa ascoltare mentre si parla e questa frase, per me incomprensibile, mi porta ad affacciarmi a un’esperienza a me sconosciuta, praticata da chi improvvisa suonando e dialoga e si ascolta e crea e interagisce mentre suona.
Interplay, la chiama Paolo, e io avverto una mancanza nella nostra lingua che non conosce una parola come play (o jouer o spielen) che uniscono in un solo verbo il suonare, giocare e recitare.
Bambine e bambini quando giocano da piccoli o improvvisano momenti di teatro spontaneo sono certo che in molti casi si ascoltano e dialogano mentre parlano, ma poi crescendo le strade si separano e tutto diventa più difficile. E allora penso che andare a scuola e imparare da chi pratica l’arte dell’improvvisazione, da musicisti capaci d’essere in certo modo dei prosecutori d’infanzia, possa fare bene, davvero molto bene alla scuola e a noi che proviamo a fatica a educare e insegnare tentando di dare la possibilità di scoprire qualcosa di più di se stessi interagendo con le altre e gli altri.
A Bologna dal 20 al 22 maggio si sono tenuti gli stati generali del Jazz. Sono felice di avere partecipato alla mattinata dedicata all’educazione e penso che i progetti promossi dal gruppo “Il Jazz va a scuola” (IJVAS) vadano sostenuti con convinzione.