Come si struttura e come si arricchisce la personalità del bambino nella scuola dell’infanzia? Rispondere a questo interrogativo significa iniziare un percorso affascinante di ricerca che si risolve in un processo circolare. Se è vero, infatti, che è a partire dal proprio io inteso come globalità corporea ed affettiva che il bambino entra in relazione con il mondo degli altri (famiglia, scuola, quartiere, universo), fondamentale allora diventa la capacità di ascolto dell’insegnante, che fornisce al bambino nuove modalità espressive, raccogliendo e integrando in un sapere della comunità i contributi di tutti i bambini. La capacità di ascolto dell’adulto è come uno specchio in cui il bambino ritrova esplicitata la propria forma e che gli consente quel consolidamento che è necessario per l’acquisizione di nuove conoscenze e per lo sviluppo di una creatività consapevole dei propri strumenti.
D’altra parte, sul versante dell’adulto, imparare a domandarsi chi sia veramente il bambino, icasticamente definito da Freud «padre dell’uomo››, non può che portare alla consapevolezza di una specifica e inconfondibile cultura infantile la cui scoperta rimette definitivamente in discussione una visione stereotipata e riduttiva dell’infanzia.
L’ipotesi di una pedagogia dell’ascolto accomuna, invece, adulto e bambino in un unico, continuo processo di ricerca dove conoscere significa prima di tutto imparare a porsi e a porre delle domande.
1. LO SPAZIO DELL’ASCOLTO
a) La cultura del bambino: un patrimonio in estinzione
È stato più volte sottolineato come la scuola di ogni ordine e grado tenda a considerare, tradizionalmente, il bambino come una pagina bianca su cui è doveroso imprimere indelebili segni. Per il bagaglio delle sue esperienze precedenti, per il patrimonio complesso delle sue emozioni, pensieri e fantasie non c’è rispetto né ascolto. Anonimo fra anonimi, deve imparare rapidamente a uniformarsi a regole di cui non conosce l’origine, eseguendo prestazioni che tanto più vengono elogiate quanto meno si distinguono da quelle degli altri.
Come gli antichi popoli Maya o Incas furono colonizzati da chi non riusciva ad accettare modalità di pensiero e di comportamento diverse dalle proprie, cosi i bambini rischiano di venir quotidianamente spogliati dei loro beni più preziosi – la creatività, la fantasia – in nome di un sapere di cui si è smarrito il significato. C’è da chiedersi se gli adulti ignorino veramente l’esistenza della cultura infantile, impregnata di riti segreti e magiche credenze o se proprio questa cultura tribale e misteriosa venga avvertita inconsciamente, dagli adulti, come un’oscura minaccia, e perciò così completamente negata.
In questo modo la scuola, nata in funzione del bambino, se si trasforma in istituzione totale può soffocarne l’identità, là dove a un bambino senza corpo né storia fa da corollario uno spazio anch’esso asettico e senza storia.
È ancora una volta il mondo degli adulti, infatti, che emerge dalla disposizione dei banchi e della cattedra, dall’uniformità scoraggiante delle rare immagini appese ai muri. Generazioni di bambini possono susseguirsi nelle stesse aule senza che una sola traccia visibile ne trasmetta l’impronta individuale. Anche l’abitudine di presentare al bambino continui modelli da imitare si fonda su un’idea dell’educazione che vede in una ripetizione spersonalizzante il suo principale fondamento educativo, giacché i plastigrafi da riempire, le sagome da colorare, i disegni da ricalcare sostituiscono alla conoscenza individuale e contraddittoria della realtà la funzione emblematicamente rassicurante dello schema. È la stessa ansia, certamente, che spinge gli educatori a fornire immediate, frettolose risposte alle domande infantili, troppo spesso inquietanti e insidiose rispetto alle salde certezze dei “grandi”.
b) La scuola come spazio di vita
Per sconfiggere l’anonimità e il grigiore quasi carcerario che caratterizza tanti edifici scolastici è necessario invadere tutto lo spazio della scuola, reinventandone creativamente l’uso in funzione delle esigenze espressive e motorie dei bambini, quasi sempre soffocate nei limiti esigui dell’aula.
Atrii e corridoi possono trasformarsi in botteghe improvvisate, in angoli per il travestimento e per la drammatizzazione, mentre spogliatoi, stanzini e antibagni diventano, con pochi accorgimenti e molta fantasia, ottimi ateliers o laboratori per la pittura e la manipolazione.
Abitare tutto lo spazio, significa soprattutto coinvolgere a pieno titolo il personale della scuola, ivi compresi collaboratori e personale di cucina, nell’intervento pedagogico, con la consapevolezza che ogni momento della giornata può acquistare una potenzialità educativa e diventare un’effettiva occasione di maturazione sociale.
Solo se la scuola si caratterizza nel suo insieme come spazio di vita accogliente e familiare per i bambini e per gli adulti, cioè come luogo di incontro e di progettazione da cui partire insieme alla scoperta di altre realtà, il gruppo-classe non acquista una dimensione limitante e restrittiva della socialità infantile, ma prefigura il primo nucleo di una comunità più vasta che si costruisce giorno per giorno, nello sforzo costante di elaborazione di un progetto comune.
c) L’aula come itinerario della memoria
Se l’ambito della scuola intera è essenziale per una comunicazione articolata di tutti i gruppi-classe, lo spazio dell’aula, anche se infelice e angusto, ha come funzione principale la concreta materializzazione dell’asc0lto. Per questo motivo esso non può che strutturarsi progressivamente e con connotati assolutamente propri, in relazione alle esigenze e alle leggi della comunità che lo abita, ma organizzato tuttavia in modo sufficientemente duttile da consentirne un uso differenziato a seconda dei momenti della giornata. Un unico grande tavolo o più tavoli raggruppati, che sanciscono il carattere «circolare» della comunicazione, il tappeto, l’angolo della casa, sono i primi elementi di un ambiente che risulterà tanto più protettivo per il bambino quanto meno si differenzierà da quello familiare.
Ma è soprattutto la registrazione grafica e visiva dell’ascolto, che invadendo le pareti dell’aula ne impregna affettivamente lo spazio, lo personalizza e tramanda con la storia di ognuno il percorso di una comunità che cresce e si sviluppa riconoscendo se stessa nei segni tangibili della propria memoria.
È appunto l’accumularsi del materiale alle pareti, l’ordinata documentazione delle tappe della sua ricerca che permette al bambino di cogliere il passaggio dalla propria memoria individuale alla storia, che è sempre storia della collettività, e di dare finalmente un senso a strumenti come la lettura e la scrittura nel momento stesso in cui li utilizza o li vede utilizzati dagli altri per la decifrazione e la comprensione delle esperienze.
d) Gli «strumenti dell’ascolto››
Pur avendo sottolineato la dimensione prettamente psicologica dell’ascolto, è di grande utilità manifestarne i risultati al bambino attraverso l’utilizzazione di alcuni strumenti privilegiati che scandiscono ritualmente l’inizio della giornata delineando il carattere comunitario di alcune attività: attività che acquistano, in quanto ripetute quotidianamente, il significato di vere e proprie tradizioni: – l’assemblea costituisce il perno dell’organizzazione della mattina, perché raccoglie le comunicazioni dei bambini sugli avvenimenti successi al di fuori della scuola o su altre esperienze significative, magari sul piano emotivo, su cui si concentra l’interesse generale.
Nell’assemblea si programma il lavoro da svolgere in gruppo, ma soprattutto si impara a comunicare i propri pensieri nella fiducia di saperli ascoltati. Spiega infatti un gruppo di bambini di cinque anni: «L’assemblea è quando ci sediamo sul tappeto e diciamo chi vuole giocare, disegnare, cucire. Che si dice dove sei stata, in campagna, sulla neve, oppure ai giardini, oppure al mare. Si parla tra di noi per raccontarsi le cose che ci sono successe, però tocca parlare uno per volta se no non si capisce più niente››.
È il luogo privilegiato dove si esprimono e si confrontano sogni, paure e ipotesi fantastiche di fronte a un uditorio sorprendentemente attento alle argomentazioni: «Il buio è come una cosa nera che ti immagini le cose come se esistono ma invece non esistono, cose colorate che ti sembrano mostri…››
«Il buio è un blu con le stelle…››
«Io sogno quello che non voglio pensare…››
«Uno sogna perché pensa a certe cose che non ha mai pensato…››
Raccogliere per iscritto o col registratore queste comunicazioni infantili, così dense di implicazioni e di quesiti è il modo migliore per avviare un processo di ricerca che partendo dalla cultura effettiva di cui il gruppo è portatore getti le basi per un’indagine aperta a tutti i possibili sviluppi, e che si esprime in una molteplicità di linguaggi.
– Le presenze che possono avere la forma di fotografie dei singoli bambini da appendere alla parete, o di cartellini coi nomi, odi autoritratti, ribadiscono il valore della presenza e della assenza dei componenti del gruppo e sono occasione di riflessione sui rap porti, sul tempo che passa… Chi simboleggia la propria presenza colorando un quadratino si diverte a misurare la sua striscia con quella degli altri, mentre chi utilizza i cartellini scritti scopre spontaneamente di riuscire a leggere i nomi dei compagni. – Il tempo metereologico oltre che a porre le basi per le prime osservazioni scientifiche, l’osservazione delle variazioni del tempo permette al bambino di farsi un’idea del flusso delle stagioni, no zione altrimenti astratta e incomprensibile. Assistiamo in genere a una gara accanita e piena di trucchi tra il sole e la pioggia, che riacquistano così un valore molto simile a quello emblematico che possedevano nei miti dei popoli primitivi. – Il tempo cronologico: che vi sia una scansione ciclica dei ritmi della giornata e della notte così come delle settimane e dei mesi il bambino lo capisce progressivamente, dopo che drammatizzazioni e reiterate esperienze gli hanno fatto scoprire che il suo tempo è anche il tempo degli altri e che certi giorni ritornano a intervalli regolari. – I calendari: disegnati interamente dai bambini servono a tramandare alcuni degli avvenimenti o delle attività più significative situandole nel tempo. – Il giornale murale: collocato bene in vista, numerato progressivamente e conservato con cura, il giornale murale è lo strumento base per valorizzare le comunicazioni dei bambini. Vi si incollano fotografie, cartoline, oggetti ricordo a testimonianza dei momenti importanti per il singolo o per il gruppo, che verranno successiva mente ricostruiti o ricordati. Sia che riguardi principalmente i racconti di episodi esterni alla scuola o che abbia carattere monografico e raccolga i lavori di tutti su un argomento specifico o documenti un’uscita all’esterno o una festività importante, il giornale è indubbiamente un tramite fondamentale di espressione una volta che se ne sia afferrata la sua funzione di consolidamento e organizzazione delle conoscenze.
2. IO E GLI ALTRI
a) Identità corporea e identità affettiva
Analizzare lo spazio dell’ascolto, cioè la dimensione strutturante del rapporto fra l’adulto e il bambino, significa vedere in termini nuovi la dinamica di questo rapporto, troppo spesso considerato unicamente in termini unilaterali. Infatti, se l’adulto non è più colui che fornisce al bambino modelli e risposte, ma il depositario di una preziosa memoria collettiva, ogni momento della pratica educativa deve essere rivisto in questa ottica, per evitare che alla centralità del bambino si sostituisca, sotto mentite spoglie, la spodestata centralità dell’adulto.
Si rende perciò necessaria una riflessione accurata sulla forma zione dell’identità al fine di porre le basi di un progressivo consolidamento della personalità infantile a partire dal quale è possibile fondare un’indagine sull’ambiente circostante. E soprattutto nella relazione con la madre che il bambino elabora un’immagine interna del proprio corpo, che lo porterà verso i tre anni circa di abbandonare la fase esplorativa dello scarabocchio per conquistare, se adeguatamente stimolato, una rappresentazione di sé sempre più precisa e dettagliata.
Ma una buona espressione grafica del corpo non può dipendere da insegnamenti o da tecniche codificati rigidamente. Se per “corpo” intendiamo la globalità stessa e l’interezza della persona percepita come unione inscindibile fra dimensione fisica e dimensione psichica dell’individuo, povero e riduttivo ci apparirà allora ogni approccio finalizzato all’acquisizione da parte del bambino di un puro e semplice schema corporeo, nozione questa che rimanda più alla forma che non alla totalità dell’esperienza. In questa accezione è più giusto dire che il corpo non lo si conosce, ma lo si sperimenta: globalità attraverso lo specchio, che ci rimanda un’immagine unitaria; frammentazione nella ricomposi zione delle diverse parti del pupazzo smontabile; ombra proiettata contro il lenzuolo; impronta raffigurata nella sagoma; fonte di sensazioni e di scoperte nell’ascolto dei ritmi del cuore o nell’osservazione delle mutevoli espressioni del volto. Il corpo si sperimenta prima di tutto nel movimento, già inibito e inceppato a causa dei conflitti interni anche nei bambini. Imparare a decifrare gesti e movimenti, ad ascoltarli con la stessa attenzione che dedichiamo al linguaggio verbale, è l’unico modo per liberare “le parole” del corpo congelate nella stereotipia delle abitudini.
Attraverso la conoscenza profonda, continuamente rinnovata del proprio vissuto corporeo il bambino acquisisce una libertà della espressione che è la premessa necessaria di uno sviluppo più armonico di tutta la sua personalità. Per questo motivo l’educazione al movimento non dovrebbe costituire l’oggetto di un apprendimento settoriale, ma un punto di riferimento costante dell’educatore in ogni fase del suo intervento educativo.
b) Conoscere se stessi per conoscere gli altri
È difficile separare il vissuto corporeo dal vissuto affettivo, ambedue altrettanto determinanti nella costituzione complessiva della persona. Il bambino, è stato detto, porta a scuola un corpo e una storia..
Ricostruire questa storia, attraverso ricordi, oggetti e fotografie, per raccontarla ai compagni e all’insegnante permette al bambino di esprimerla, forse per la prima volta, a sé stesso come un mosaico le cui tessere siano formate non solo dalle esperienze passate, ma anche dalle fantasie e dai progetti sull’avvenire: chi ero, chi sono, chi vorrei essere. Se consideriamo che è l’impossibilità di assumersi la propria storia l’origine profonda di sofferenze e disturbi psichici, sarà chiaro il valore fondante di una riflessione su di sé e sulle proprie relazioni affettive come preparazione a una conoscenza più ampia della realtà esterna che richiede appunto la capacità di elaborare i conflitti.
Preparare in gruppo un libro della vita di ogni bambino, che si arricchisce progressivamente accompagnandolo in questi primi anni così pieni di scoperte, è anche un’occasione per un continuo scambio di opinioni sui fatti della vita: la gelosia verso i fratelli, le nascite, le morti, i litigi… Certo la realtà che emerge da questi dialoghi infantili non è sempre rosea né edificante. Con innocente spietatezza i bambini possono mettere a nudo aspetti penosi della vita quotidiana di cui testimoniano efficacemente tensioni, violenze e drammi. Ecco, ad esempio la descrizione di un litigio fra i membri di una famiglia di Trastevere: «allora C. e D. fanno le cattive, papà le difende e mamma le mena. Si danno i calci e si danno gli schiaffi. Papà a mamma, e mamma li ridà a papà, io mi comincio ad arrabbiare e meno a loro, loro si arrabbiano e mi menano a me. Allora io ho detto: ‘«sta vede* che questi litigano e va a finì che io vado in collegio». Allora mamma e papà si sono spaventati. Non fanno mai pace, fanno sempre le cattive C. e D. e loro non la smettono mai di litigare››. La circolarità delle botte esplode anche in questo brevissimo, incisivo apologo di Silvia: «C’era una volta una mamma che si chiamava Rosanna. Era molto allegra e puliva sempre. Il marito era buono, ma qualche volta menava ai figli perché sporcavano in cameretta. Anche la mamma Rosanna è nervosa, Luca è cattivo per ché mena a Silvia e mamma mena a Luca. E papà a tutti›>. Spietato ma realistico il discorso sulla morte di un altro trasteverino che termina con una conclusione agghiacciante: «il cimitero serve per andare a trovare le nonne, per mettere dentro le persone quando sono morte. Le mettono lì perché dopo a vederle fanno schifo. Non mangiano più, la ciccia si secca e diventa cenere. Lo sai che i morti li mettono al cimitero perché non servono più?››. Soprattutto nei bambini di borgata lo scontro con le difficoltà economiche e con la mancanza di spazio è inevitabile fin dalla primissima infanzia.
In questo progetto di costruzione di una casa da farsi con le scatole vuote del latte e prima disegnata da un gruppo di San Basilio ciò che colpisce è la nettezza delle conclusioni: «i muratori fanno la casa. Noi facciamo il disegno della casa. Poi facciamo le finestre, ci mettiamo i fiori, il tetto, il camino, l’antenna. Dentro la casa ci stanno le signore e i signori. Anche i bambini i nonni e gli zii. Ma non stanno tutti insieme perché i letti sono pochi. Perché hanno pochi piatti e non possono dargli l’altri. Ognuno abita la casa sua. È meglio stare in pochi dentro le case››. Naturale e spontaneo, perciò, è il passaggio dal microcosmo dell’ambiente familiare e delle sue relazioni alla conoscenza di quel macrocosmo che per il bambino è il quartiere. Accade, ad esempio, che al Tiburtino III° esplorando una grotta vicino alla scuola si incontri “l’ombra della morte” e ci si soffermi, tra una piantina e un istogramma, a discutere sulle paure: “C’è un bambino con la lingua di fuori perché si mette paura della morte che sta in una grotta sul prato. Si mette paura anche del serpente e del ragno”. “È un mostro, un maniaco che acchiappa i bambini e li ammazza e poi la mamma piange e dice: “Dove sei piccolino mio, te lo avevo detto di non andare lontano”.
Abituarsi a mettere in comune gioie e dolori, confidando nello ascolto dei compagni e dell’insegnante vuol dire allora conquistare ‘fiducia nel carattere liberatorio della parola, che esorcizza, attraverso il confronto, timidezze e dubbi, costituendo cosi un sapere veramente collettivo perché formato con 1 pensieri e con le emozioni di tutta la comunità.
3. LA RICERCA
a) Ogni conoscenza è conoscenza delle proprie emozioni
L’intreccio inestricabile fra pensiero ed emozione, da sempre sottovalutato dalla pedagogia ufficiale, non è che il corollario di una formulazione psicoanalitica dei rapporti tra inconscio e coscienza che vede l’onnipresenza del sistema inconscio in ogni manifestazione della vita mentale. In questa ottica l’inconscio non solo è considerato come la base generale della vita psichica, ma anche come il fondamento di ogni conoscenza, in quanto tende a equiparare la realtà esterna a quella psichica.
Partendo da questa premessa non può che apparire limitativa e inadeguata ogni proposta educativa impostata su una separazione netta fra i due ambiti: realtà interna e realtà esterna, infatti, dovrebbero fondersi armonicamente in una personalità effettivamente matura ed equilibrata, cosi come dovrebbero fondersi senza troppi squilibri pensieri ed emozioni. È proprio questa fusione spontanea che colpisce nei bambini ogni volta che venga loro offerta la possibilità di esprimere completa mente le proprie idee. Stupisce perciò che un autore come Piaget finisca col descrivere con sufficienza le manifestazioni del pensiero infantile, qualificandone come frutto di «animismo» e «artificialismo›› quasi per stabilire differenze insormontabili fra il mondo degli adulti e quello dei bambini.
Le fasi da Piaget considerate evolutive e limitate nel tempo, che dovrebbero quindi essere supera te per conquistare l’ambìto traguardo del pensiero formale, non cessano mai di esistere per l’inconscio, che vi ricorre abitualmente nei suoi strati più profondi o in occasione di emozioni particolar mente intense. Non c’è insomma sostanziale differenza fra pensiero infantile e quello considerato adulto: nell’uno predominano onnipotenza dei desideri e antropomorfizzazione della realtà così come la coesistenza di istanze contraddittorie, che nell’altro sono appena mimetizzate, ma pronte a riemergere sotto il dominio di una emozione. Se ogni processo epistemologico si fonda sulla rielaborazione inconscia delle emozioni e sulla loro permanente traduzione, attraverso il tessuto dei simboli, in immagini e pensieri, ne deriva un nesso strettissimo fra conoscenza e fantasia la cui funzione è umiliata e misconosciuta, invece, nella didattica tradizionale quando richiede al bambino una completa rinuncia alle sue credenze «ani mistico-onnipotenti››.
b) Le ipotesi fantastiche
La formulazione di un’ipotesi, anche la più «scientifica››, comporta, quindi, un atto preliminare di fantasia che è nello stesso tempo una manifestazione di creatività. Soprattutto nei bambini l’ipotesi fantastica è una forma spontanea di risposta agli innumere voli quesiti che la realtà propone quotidianamente alla loro inesperienza. Seguire lo sviluppo e l’andamento di queste ipotesi infantili è, oltre che affascinante, estremamente istruttivo per ogni adulto che desideri riscoprire le origini e la matrice del proprio stesso pensiero: nell’urgenza di trovare delle spiegazioni i bambini inventano senza rendersene conto teorie straordinariamente elaborate e complesse sull’origine e sul funzionamento delle cose, formulando sui dati della realtà sensibile proposizioni analoghe a quelle enunciate dai primi filosofi.
Come loro, anche i bambini sperimentano che ogni affermazione apre la strada a nuove deduzioni e provoca altre domande e altri problemi. È quello che succede a un gruppetto di bambini di S. Basilio, partiti dall’eterno quesito sulla collocazione del mondo nell’universo: «Il mondo è una palla grande. Noi stiamo dentro la palla che e di vetro trasparente. Dice Federica: ci deve essere uno sportello. Se esci dalla palla non vedi più niente. Il mercato sta dentro la palla. Il sole sta fuori se no brucia tutto. Se il mercato sta dentro, anche il sole sta dentro. Quando viene la notte si vede la luna che sta fuori. Il mondo come si regge?››
c) La metodologia della ricerca
La registrazione accurata delle ipotesi fantastiche è dunque, nel bambino come nell’adulto, il primo passo di ogni metodologia della ricerca che consideri necessario un coinvolgimento totale e un’implicazione costante di tutta la persona nel processo di apprendimento. Attraverso i disegni e le conversazioni, nell’ascolto che ne fa l’adulto, la cultura iniziale del singolo, con il suo tessuto peculiare di associazioni e di fantasie, diventa cultura del gruppo, per poi trasformarsi subito, con la mediazione dell’insegnante, in una serie articolata di domande le cui risposte costituiranno la trama e l’oggetto del progetto di ricerca.
L’analisi degli strumenti necessari e dei linguaggi espressivi da utilizzare (pittura, drammatizzazione, danza…) è parte integrante dell’approfondimento successivo. Le esperienze sollecitano poi la raccolta di altro materiale e di nuove fonti di informazione, aprendo ulteriori e insospettati filoni di indagine e di conoscenza.
Il risultato finale ma mai conclusivo sarà dato dall’elaborazione individuale, magari ancora intrisa di elementi magici e fantastici, che ogni bambino farà dei contributi che tutto il gruppo ha dato nel suo percorso conoscitivo. Può accadere allora che bambini apparentemente polarizzati solo dai personaggi onnipotenti di Goldrake mostrino un appassionato e inesauribile interesse per i pianeti e per il sistema solare, smentendo inopinatamente le teorie sull’influsso passivizzante dei mas media.
Ne è la prova questa discussione straordinaria sulla luna, illustrata da pitture altrettanto sorprendenti che dimostrano la qualità emotiva della partecipazione: «Nello spazio c’è la luna, le stelle, i pianeti Marte, Genova, i marziani, le rocce che si muovono e i mostri dello spazio. Stanno tutti là al buio e se ci va la luna se cecano. – Ma che se cecano, se viene il giorno se squagliano, perché è da tanto tempo che loro ci vedono con gli occhi chiusi e allora muoiono se c’è la luce. La luna prima era una palla che stava per terra e poi ha chiama to l’aria e lei voleva che l’aria la tirasse su per farla crescere sopra al cielo, nello spazio. La luna è un cerchio, il cielo sta sotto e la luna sta sopra. Sulla luna c’è lì fiori rossi e gialli, la luna sta ferma e la luna sta lassù perché c’è il sole che fa la luce. Io lo so perché è in alto, perché c’è tanta aria e allora la tira sempre più su, sopra dell’aria che la tiene, poi, mentre la sta tenendo l`aria ridiscende a prendere altre cose, altri pianeti, altre stelle. Sulla luna ci sono tanti uomini di diversi tipi da noi. Hanno certe armi per difendersi da quelli che vogliono conquistare i piane ti, quelli di Giove, Marte, ecc. Sulla luna ci sono le case. La luna cammina perché c’è l’aria che la spinge. – No, la luna cammina, quando camminiamo noi ci viene dietro. – E allora chi la spinge? – C’è tutta l’aria che la spinge; ci sembra che ci siano tutti uomini che la spingono, invece non c’è niente, c’è solo l’aria. – Ci ha ragione Nino che la luna cammina, perché una volta io stavo a annà da nonna con la macchina e la luna me veniva dietro, però quando noi se fermavamo anche la luna se fermava. – No, mica sta sempre lì la luna non se ferma mai e nemmeno il sole. – No, il sole qualche volta se ferma perché è stanco. La luna è la mamma della terra perché è la luna che ci dà la vita e la luna non muore mai. Ci dà vita perché è la luna che ci dà luce quando è notte. – Ma chissà chi è che dice alla luna e al sole dove stamo a annà noi! E poi me pare che loro ce stanno davanti e no de dietro e allora la strada ce la dicono loro! – Dovrebbe esse Gesù – Ma che c’entra Gesù? – Perché Gesù ci ha creati – Io credo che saranno gli altri pianeti – Anche Gesù – È la luna che lo dice al sole – Qualcuno glielo dice de sicuro! – Ma chi li manda la luna e il sole? – Io dico Gesù e la Madonna – Certo qualcuno ce l’ha mandati – La luna non è sempre uguale, quando è lontana pare piccola piccola, quando è vicina è grande. – A me me pare grande in tutti e due i modi – La luna è piccola, poi a mano a mano che passano i giorni diventa grande, perché è come noi, cresce, mangia il vento e cresce come li bambini. – Certe volte è spaccata, no, non è spaccata, ci sono le nuvole davanti. – No, se spacca e un pezzo va in America e un pezzo resta qua. Ma certe volte la luna ci ha le corna. – Quando il sole va sotto al mare si vede che va in America. – Sulla luna non ci si vede perché è tutto bianco e poi perché in cielo c’è buio e a mezzanotte in cielo non c’è niente. Lo so perché in cielo non ci si vede niente. – Ma va, ci stanno le stelle e le stelle se le vedi da vicino è una palla di luce grandissima, me l’ha detto mamma».
La ricerca non dovrebbe mai essere finalizzata ad un prodotto, magari manipolato dagli adulti desiderosi di far bella figura, ma documentare un percorso effettivo di esplorazione e di indagine. Ciò che conta, in definitiva, non è l’informazione di tipo enciclopedico previlegiata dalla scuola tradizionale, ma l’occasione di esperienze diverse che stimolando un’utilizzazione creativa dei linguaggi espressivi producano un atteggiamento consapevolmente autonomo e critico nei confronti della realtà.
4. I LINGUAGGI ESPRESSIVI
La creatività, di fatto, viene intesa a volte dagli insegnanti come una forma di espressione libera, dove «libertà» viene ad assumere il significato di «mancanza di indicazioni». Eppure a tutti è noto quanto sia inevitabile, se abbandonato a se stesso, che il bambino riproduca stereotipi assolutamente lontani da ogni produzione creativa: ciò che genera espressione non può che essere l’urgenza di manifestare a sé e agli altri contenuti carichi di risonanze sul piano emotivo. Una delle principali conseguenze di questo assunto di base è la necessità di non svolgere mai attività con i bambini che non siano nate da una motivazione precisa o siano prive di collegamenti con quelle fatte in precedenza.
La scelta di un linguaggio espressivo dovrebbe essere il punto di arrivo di un lavoro paziente di analisi delle diverse forme di comunicazione che passa attraverso un approfondimento delle singole tecniche soprattutto in funzione di un ampliamento e di un approfondimento degli strumenti. Accade spesso, al contrario, che si utilizzino tecniche fine a se stesse, avulse da un contesto significante, quando non si arriva a predisporre prodotti compiuti dove l’intervento del bambino è pura mente formale. Si oscilla, cioè, paradossalmente, nei confronti dei bambini, fra l’imposizione rigida di modelli concepiti dagli adulti e la permissività più disattenta, dimenticando che ogni manifestazione creativa è sempre frutto di una lunga ricerca e richiede perciò una padronanza dei materiali che si conquista solo dopo che ripetuti momenti di esplorazione e di manipolazione hanno consentito una conoscenza concreta delle proprietà e delle caratteristiche più significative.
I mezzi espressivi possono dunque comunicare uno stesso contenuto con modalità diverse, contenuto che trova nell’alternarsi dei linguaggi la possibilità di un’articolazione più completa del proprio significato. Anche in questo caso, aiutare il bambino a stabilire i collegamenti necessari è possibile a partire da una visione unitaria dell’apprendimento che veda in ogni singola esperienza la potenzialità di tutte. Il linguaggio del corpo, ad esempio, rimanda non soltanto alla comprensione della comunicazione non verbale e all’utilizzazione di elementi di psicomotricità, ma anche al linguaggio musicale, alla danza e alla drammatizzazione. La drammatizzazione, a sua volta, che già di per sé costituisce una modalità insostituibile di rielaborazione e comprensione degli avvenimenti, comporta una gamma vastissima di attività parallele: – la pittura e il collage per fabbricare gli scenari; – la musica per scandire i momenti drammatici; – la manipolazione per costruire i burattini; – l’invenzione di storie per preparare il copione; – la fotografia per documentare visivamente le sequenze…
Analogamente, la scoperta del colore può essere accompagnata dalla lettura in termini fantastici delle immagini dei quadri dei grandi pittori, mentre il linguaggio musicale oltre che verso l’ascolto può condurre all’analisi e alla scomposizione dei rumori in genere, per poi arrivare alla costituzione di elementari partiture. È proprio la sperimentazione diretta di questa circolarità insita nel processo creativo che introduce una dimensione di consapevo lezza nella scelta che un bambino fa di uno specifico mezzo espressivo. Ne è una prova la distinzione chiara che questi bambini riescono a stabilire fra teatro fatto da loro e teatro dei burattini: <
5. SIMBOLIZZAZIONE E CONOSCENZA
Per il bambino, conoscere è prima di tutto elaborare una ipotesi fantastica che si articola successivamente in un progetto. Ma conoscere è anche decifrare i simboli e i segni di cui è intessuta l’esperienza quotidiana. Il pensiero infantile così interdipendente dall’emozione e dalla affettività, fa uso spontaneamente di raggruppamenti e di classificazioni che sono impliciti nella modalità di funzionamento del sistema inconscio.
La realtà psichica, in effetti, a differenza di quella fisica, può essere moltiplicata all’infinito mediante l’uso di immagini simboliche che si sostituiscono vicendevolmente. Da questo presupposto deriva, fra l’altro, che ogni acquisizione di concetti si fonda nel bambino come nell’adulto, su operazioni mutuate contemporanea mente dalla realtà e dall’immaginario. Non prendere atto di questo dato fondamentale comporta il rischio di una sfiducia definitiva del bambino nelle proprie capacità intellettuali, là dove il suo bisogno profondo di antropomorfizzare i contenuti più astratti viene scambiato con una manifestazione di immaturità.
Al contrario, il libero ed esplicito fantasticare sulle forme simboliche dei segni grafici ne consente un’appropriazione che li rende familiari pur nella loro intrinseca specificità. La A, per esempio, non è unicamente la A di ape, che colla sua presenza vischiosa ed ossessiva distrugge qualsiasi possibilità di immaginare che esistano altre A, ma l’infinita sequenza di immagini diverse che ha suscitato in ogni bambino del gruppo. Allo stesso modo, soltanto dopo aver esplorato il significato emotivo di concetti topologici o di unità di misura se ne può prevedere una utilizzazione non stereotipata e artificiosa da parte del bambino, che ha bisogno per impadronirsene realmente di misurare ogni acquisizione astratta a partire dalla propria realtà concreta e tangibile.
In questo continuo rapporto dialettico tra soggettività e oggettività ritroviamo così il significato più vero di un’ipotesi educativa che si prospetta come ricerca di una identità emotiva, intellettuale e corporea più libera e piena: la conoscenza di se e del proprio mondo è la condizione necessaria di ogni apprendimento che rispettando la globalità del bambino ponga le basi di un suo incontro armonico e creativo con il mondo degli altri.
Questo testo è contenuto in un piccolo libro edito all’inizio degli anni Ottanta dal COMUNE DI ROMA/ ASSESSORATO SCUOLA
LEGGI IL COMMENTO DI FRANCO LORENZONI ALL’ARTICOLO DI ALESSANDRA GINZBURG => https://www.cencicasalab.it/il-blog/lemozione-e-la-madre-del-pensiero/