Terminata la quinta primaria una bambina di Firenze non riesce ad allontanare da sé l’idea del suicidio e i genitori, colti di sorpresa, non sanno come comportarsi.
Il numero di adolescenti ricoverate per casi gravi di anoressia o bulimia e di ragazzi seguiti più o meno adeguatamente dai servizi di igiene mentale sono aumentati di oltre l’80%. Dilagano forme di depressione e rifiuto di ogni contatto con il mondo esterno.
Non credo si abbia ancora un’adeguata percezione del livello di gravità della sofferenza in cui vivono una grande quantità di ragazze e ragazzi e spesso sono i più sensibili e profondi a cadere in stati di sofferenza insopportabili.
Le responsabilità di noi adulti sono grandi e stanno sottraendo senso alla vita dei più giovani, avvilendo il loro immaginario. Da decenni stiamo erodendo la speranza di futuro senza darcene conto. Sono cinquant’anni che il surriscaldamento globale è un’evidenza scientificamente accertata, ma non siamo stati capaci di imporre per tempo nessuna scelta politica ed economica capace di contrastare catastrofi annunciate.
C’è voluto lo sguardo determinato e intransigente di una quindicenne svedese ribelle per suscitare, cinque anni fa, il primo movimento planetario di una generazione a cui stiamo letteralmente sottraendo ossigeno. Ma a interrompere bruscamente quella rivolta nascente è venuta la pandemia, ed essere costretti a vivere gli anni dell’adolescenza e preadolescenza in corpi negati e sottratti, a vivere ogni contatto come possibile contagio, non poteva non accrescere disagi, spaesamenti e un senso di impotenza che porta a chiusure, isolamento e a sempre più diffuse forme di autolesionismo.
Se poi alla pandemia e a una crisi climatica dalle conseguenze ormai evidenti anche qui si assomma una guerra vicina, al centro dell’Europa, è evidente che i più giovani sentano di imboccare strade senza via d’uscita, in un mondo forgiato da adulti distratti e irresponsabili.
C’è chi ha provato e prova a opporsi alla miopia e al cinismo di chi governa le scelte che contano, ma se siamo onesti, riguardo allo stato di salute del pianeta, non c’è dubbio che noi adulti stiamo consegnando a figli e nipoti un mondo peggiore di come lo abbiamo trovato.
I fondi del PNRR, concepiti per sostenere la nex generation dell’Unione europea, in Italia si stanno cominciando a spendere secondo logiche per nulla partecipate e spesso più che criticabili, come dimostrano due cosiddette riforme, riguardo alla formazione dei docenti e al contrasto della dispersione scolastica.
Per insegnare in uno scenario caratterizzato da così vasta sofferenza e segnato da mutazioni profonde e imprevedibili c’è bisogno di continua ricerca e formazione. C’è bisogno di ripensare a quali siano gli strumenti culturali indispensabili oggi e a come dare respiro a sensibilità e attenzioni capaci di cogliere come i più giovani vivano le sfide del nostro tempo. E allora andava ripensata e trasformata con radicalità la formazione iniziale, ponendo la scelta del mestiere dell’insegnare all’inizio e non alla fine del percorso universitario, magari come ripiego, perché non è possibile insegnare alle medie, nel segmento più delicato e in sofferenza del sistema, rintanandosi in una disciplina studiata non per l’insegnamento, a cui si aggiunge qualche credito in più di pedagogia e psicologia senza alcuna organicità. L’Università e la ricerca, a cui continuano ad essere destinate in percentuale meno della metà delle risorse rispetto alla media europea, fatica grandemente a ripensare se stessa e a interagire attivamente con la scuola che sperimenta.
Rispetto alla formazione in servizio appare sciaguratamente limitata la scelta di formare obbligatoriamente 650.000 docenti sul terreno del digitale, visto come priorità assoluta.
Le lunghe stagioni della didattica a distanza hanno dimostrato che le e gli insegnanti che hanno reagito con più efficacia e sensibilità non sono stati coloro che erano maggiormente attrezzati sul terreno tecnologico, ma coloro che avevano alle spalle pratiche di educazione attiva e didattiche capaci di mobilitare risorse, curiosità e tensioni di studentesse e studenti. Coloro che sono stati in grado di affrontare di petto sul terreno culturale lo spiazzamento e la vertigine provocata da una totale alterazione di spazi e ritmi quotidiani, le cui conseguenze di lungo periodo sono davanti ai nostri occhi.
Riguardo alla dispersione scolastica e alle povertà educative, cresciute a dismisura nel tempo della pandemia, il Ministro Bianchi aveva nominato in marzo una commissione di esperti per individuare percorsi, metodi e destinatari per impiegare in modo efficace il primo mezzo miliardo destinato ad arginare il fenomeno, ma la proposta elaborata, fondata sulle esperienze più significative sperimentate, è stata tenuta in ben poco conto e il ministero ha scelto la vecchia e dannosa pratica dei finanziamenti a pioggia.
L’idea di quel gruppo di lavoro era di concentrare finanziamenti ingenti nei territori più disastrati socialmente e culturalmente, sperimentando per almeno tre anni momenti intensi di formazione, incentivi agli insegnanti e collegamenti organici capaci di coinvolgere stabilmente ASL ed Enti locali, insieme al civismo attivo e agli operatori del terzo settore. Arricchendo in questo modo le proposte educative fin dai nidi, mettendo insieme i diversi attori in coprogettazioni di ampio respiro, e accompagnando questo processo collegandolo alle sperimentazioni più avanzate già in atto.
Le scuole, poste al centro di questa difficile sfida di rigenerazione culturale dei territori, avrebbero la straordinaria occasione di ripensare tempi e spazi dell’educare perché, come ci insegnano le innovazioni più radicali del secolo scorso, dai margini si vedono meglio le cose e proprio con i più fragili si possono azzardare e sperimentare percorsi ritenuti impensabili, se si ha il coraggio e la volontà di farlo.
Questo articolo è uscito sul numero del 26 febbraio de “L’Essenziale”, il nuovo giornale settimanale di informazione sull’Italia di “Internazionale”