Il 3 ottobre è la giornata che nel 2016 il Parlamento italiano decise, all’unanimità, di dedicare alla memoria delle vittime dell’emigrazione.
Poiché viviamo in tempi di grave crisi in cui covano i peggiori sentimenti, per contrastare il crescere di ogni intolleranza credo sia necessario che noi insegnanti si ripensi in modo radicale al nostro ruolo e alle nostre responsabilità sociali.
La scuola italiana ospita al suo interno spinte totalmente divergenti. Da un lato è stata certamente il luogo pubblico di maggiore accoglienza e integrazione dei figli degli immigrati e, prima in Europa, da 45 anni accoglie alunni portatori di disabilità, dall’altro tollera situazioni in cui vengono messe in atto discriminazioni inaccettabili.
Non è facile e non sempre siamo all’altezza dei compiti che ci affida la Costituzione, quando invita a “rimuovere gli ostacoli” che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Eppure giorno dopo giorno, spesso a fatica, tante e tanti insegnanti cercano di costruire piccole comunità aperte capaci di non escludere nessuno.
Alexander Langer, che ha dedicato la vita intera al tema della convivenza, ha scritto che “per la prima volta nella storia si può – forse – scegliere consapevolmente di affrontare e risolvere in modo pacifico spostamenti così numerosi di persone, comunità, popoli, anche se alla loro origine sta di solito la violenza (miseria, degrado ambientale, guerra, persecuzioni…). Ma non bastano retorica e volontarismo dichiarato: se si vuole veramente costruire la compresenza tra diversi nello stesso territorio, occorre sviluppare una complessa arte della convivenza”.
Le nostre scuole sono uno dei pochi luoghi in cui in tante e tanti sperimentiamo con continuità e convinzione la costruzione di frammenti significativi della complessa arte della convivenza di cui abbiamo bisogno. Gli esiti sono contraddittori, diversi e disuguali e non sempre ne abbiamo la consapevolezza necessaria. Per questo dobbiamo fare di più. Molto di più.
Non possiamo più tollerare, ad esempio, che ci siano ancora classi ghetto in cui vengono confinati figli di stranieri e talvolta anche ragazzi con disabilità.
Questa pratica incostituzionale, avvallata da dirigenti pavidi o in cerca di facile consenso tra le famiglie più abbienti o influenti, va denunciata e contrastata.
Ma soprattutto è importante che noi si faccia conoscere tutte quelle periferie ed aree del paese in cui le scuole costituiscono un raro e prezioso presidio di democrazia, un luogo di costruzione culturale capace di non separare l’apprendimento dell’italiano e di un suo uso consapevole, lo studio approfondito e rigoroso di matematica, scienze, storia, lingue e arti con lo sviluppo di una capacità di ascolto e confronto tra diversi, con una frequentazione del dialogo e dell’argomentare rigoroso, capace di dare spazio al confronto tra idee diverse.
Dobbiamo dare un ampio respiro culturale a ciò che sperimentiamo nelle scuole e dobbiamo coordinare i nostri sforzi perché le tante piccole scoperte che andiamo facendo possano crescere e diffondersi e, soprattutto, possano dare coraggio a chi subisce le pressioni di una società sempre più chiusa.
Da trent’anni nel nostro paese si insulta e si denigra la cultura, si tagliano fondi alla scienza, alla ricerca, alla preservazione attenta dell’arte e del paesaggio. Le conseguenze le paghiamo ogni giorno perché prendersi cura del territorio e del discorso pubblico è un processo che richiede tempo, impegno e fatica, mentre per distruggere basta un decreto o una frase indecente ad effetto. Non dobbiamo dimenticare che il fascismo, prima di essere movimento politico, crebbe nel diffondersi di una mentalità. E che la mentalità intollerante e razzista trovi consensi sempre maggiori è un dato di fatto.
Immaginiamo ora una classe elementare, naturalmente multietnica come lo sono ormai tutte, anche se in proporzioni diverse, in cui una maestra pronunci la frase “prima gli italiani”. Primi a fare che? Primi ad andare in bagno o in giardino o magari primi nel prendere posto nei banchi? Questa frase, pronunciata a scuola, mostra palesemente tutta la sua assurdità. Fa ridere solo a pensarla.
Questo è il motivo per cui le nostre scuole di base, in grande maggioranza sono migliori della società che le circonda. Migliori perché in gran parte vaccinate dal morbo dell’intolleranza. E questo non perché noi maestre e maestri si sia più sensibili umanamente, ma perché abbiamo di fronte ai nostri occhi ogni giorno bambine e bambini e nel contatto diretto con loro, nell’imparare piano piano a conoscere i loro caratteri e qualità, sentiamo che sarebbe assurdo operare delle discriminazioni preventive, a meno di non fare nostri i deliri sulla razza italiana, esplicitamente rivendicati nel “manifesto della razza” in cui, nell’estate del 1938, un bel gruppo di professori universitari proni al fascismo scrissero: “E’ tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti” perché “frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza”.
Diversità è bellezza è uno slogan che rischia di essere retorico. Va riconosciuto francamente che diversità è anche fatica, percorso lungo di avvicinamento da affrontare con determinazione e lungimiranza. Nelle scuole siamo chiamati oggi a dimostrare che l’inevitabile società multietnica e pluriculturale in cui viviamo e sempre più vivremo, può essere più ricca, stimolante e aperta al futuro, dunque più vivibile e sicura, di una società chiusa in se stessa, impaurita e rancorosa, che sogna l’affondamento delle navi che trasportano migranti.
C’è bisogno di una persuasione convinta e di un impegno straordinario da parte di noi insegnanti. Abbiamo il dovere di preservare, migliorare e ampliare la capacità inclusiva delle nostre scuole, ma sappiamo che tutto ciò non è possibile, senza una contemporanea capacità di influenzare il discorso pubblico, senza dare un contributo culturale ampio per affrontare i nodi della convivenza tra diversi.
L’arretramento culturale di cui siamo testimoni mina le fondamenta della nostra convivenza civile, conquistata con la resistenza e delineata nella nostra Costituzione e nella Dichiarazione universale dei diritti umani.
Ci sono voluti 68 milioni di morti, di cui 43 milioni di vittime civili, perché 192 stati del nostro pianeta arrivassero, al termine della seconda guerra mondiale, a sottoscrivere una dichiarazione universale in cui si afferma solennemente che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
In quella dichiarazione, votata il 10 dicembre del 1948, nell’Articolo 7 si afferma che “Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione”.
Sono molti anni che nelle nostre città e in tutta Europa si torna a parlare di confini da presidiare e difendere. Si alzano muri, steccati e fili spinati e di nuovo ci governerà chi vuole chiudere i porti. La parola invasione viene rilanciata di continuo nei media e nel discorso pubblico a dispetto di numeri e dati. Ma di fronte ad un incitamento alla discriminazione non bastano denunce ed appelli. Dobbiamo rendere sempre più le nostre scuole luoghi di costruzione culturale consapevole e cosciente, capaci di mostrare e dimostrare che è possibile non escludere nessuno.
Il nostro mestiere ci porta ogni giorno a confrontarci con l’ignoranza e la non conoscenza. La nostra prima di tutto. Questo è un grande vantaggio, perché nessuno sa quali tratti e caratteristiche avranno le società europee tra trenta o cinquant’anni, quali equilibri o squilibri governeranno il mondo. Sappiamo solo che ciò che accadrà dipende molto dalle scelte, dai comportamenti e delle parole con cui pensiamo e ragioniamo oggi.
Dobbiamo smetterla, ad esempio, di chiamare migranti coloro che sono emigrati, perché la sospensione data da quel participio presente è la stessa che ci impedisce di pensare per i richiedenti asilo (altro participio onnipresente) un tempo di permanenza nel nostro paese aperto a possibili attività e a forme di partecipazione alla vita sociale, che possano essere di aiuto e integrazione nella comunità tramite lavori socialmente utili.
Barriere e pregiudizi si possono attenuare solo se si ha l’occasione di fare qualcosa insieme e non limitarsi a guardarsi in cagnesco, da lontano.
La scuola per questo è fondamentale, perché è un luogo dove obbligatoriamente tutti ci si incontra e si scambiano esperienze. Ecco allora che anche un nido comunale può essere un luogo di conoscenza e di scambio tra madri di diverse culture, che forse hanno molto da insegnarsi le une con le altre come alcuni esempi positivi dimostrano.
Le differenze culturali e di abitudini possono essere profonde, ma non dobbiamo dimenticare i tanti aspetti elementarmente umani che ci accomunano tutti.
Mi ha colpito ascoltare a Palermo una professoressa, che promuove da anni all’interno dell’Università una scuola italiana per stranieri, chiedere con forza che i minori non accompagnati possano accedere a quella scuola appena sbarcati, perché è allora che i ragazzi sono nel pieno delle loro energie e apprendono con velocità e convinzione.
L’errore di tenere separati e sospesi per mesi o anni, donne e uomini spesso giovanissimi, che hanno rischiato la morte per fuggire da dove non potevano vivere, la paghiamo cara socialmente perché moltiplica incomprensioni e diffidenze. Solo intrecciando vite ed esperienze si può ambire alla costruzione di una società aperta, in cui si riescano ad attenuare le paure.
La scuola è al centro di questo difficile processo perché è lì prima di tutto che siamo chiamati a sperimentare un convinto e convincente elogio della disomogeneità. Siamo chiamati a mostrare e dimostrare che tra diversi si impara meglio.
Il mar Mediterraneo è stato culla di ricche civiltà perché era facilmente navigabile e da sempre ha favorito ogni genere di scambi e non c’è crescita culturale senza un continuo attraversamento di confini.
Erodoto, il primo storico, era figlio di una greca e di un persiano. Figlio di due popoli in guerra tra loro. E’ dal suo sangue misto che è nato uno degli ambiti di ricerca più ricchi di futuro, perché capace di far tesoro delle memorie più diverse.